L’Ue propone una lista di 7 Paesi d’origine sicuri. Ci sono Bangladesh, Egitto e Tunisia

Bruxelles – Alla fine, la prima lista Ue dei Paesi d’origine sicuri promessa da Ursula von der Leyen è arrivata. Per ora, ci sono Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia. Poco importa se, entro l’estate, la Corte di giustizia dell’Unione europea potrebbe rivedere i parametri con cui poter considerare un Paese effettivamente sicuro. La Commissione europea tira dritto e serve un assist all’Italia, che aveva aggiunto Egitto e Bangladesh alla lista nazionale per poter trasferire in Albania le persone migranti provenienti da quei Paesi e valutarne le domande d’asilo con procedure accelerate.
La proposta di Bruxelles va oltre, perché propone di anticipare due controverse norme previste dal Patto per la migrazione e l’asilo (che entrerà in vigore nel giugno 2026): da un lato che l’esame delle richieste si possa velocizzare per tutti i cittadini provenienti da Paesi il cui tasso di riconoscimento delle domande d’asilo sia inferiore al 20 per cento, dall’altro che gli Stati membri possano designare come Paesi terzi e Paesi d’origine sicuri anche quelli che non lo sono per tutti o in ogni parte del loro territorio.
Potenzialmente quindi, ben di più dei 7 (più i candidati all’adesione Ue) indicati nella lista comunitaria. Basti pensare che per nessuno dei Paesi scelti dalla Commissione europea il tasso di riconoscimento delle richieste d’asilo supera il 5 per cento. E che per nessuno di questi è stato applicato il principio per cui si potrà escludere regioni specifiche o categorie di individui chiaramente identificabili per designarli sicuri.
L’obiettivo dichiarato è “aiutare gli Stati membri a trattare più rapidamente e in modo più efficiente le domande di asilo dei richiedenti che potrebbero essere infondate”. In sostanza – se la proposta della Commissione europea verrà approvata da Stati membri e Parlamento europeo – la lista Ue diventerebbe vincolante, ma allo stesso tempo non impedirebbe ai Paesi membri di stilare liste più numerose (quella italiana conta già 19 Paesi). I Paesi membri sarebbero tenuti ad effettuare procedure accelerate o di frontiera per tutti i cittadini provenienti dagli Stati indicati da Bruxelles. Le richieste d’asilo verrebbero valutate in un periodo massimo di tre mesi, e non sei, e le persone migranti trattenute per tutto il periodo della procedura.
“La richiesta d’asilo sarà valutata nel merito e la conclusione potrà sempre essere impugnata“, mette in chiaro un alto funzionario della Commissione europea. Ma è chiaro che l’obbligo di effettuare procedure accelerate per tutti rischia di entrare in collisione con il principio dell’esame individuale delle richieste d’asilo, “indipendentemente dal fatto che una persona provenga da un paese di origine sicuro o meno”. E “dovrà tenere conto dell’adeguata capacità dei Paesi membri”, sottolinea un alto funzionario Ue.
Secondo la definizione data dalla direttiva europea in vigore, un Paese è considerato di origine sicuro “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Per scegliere i primi 7 Paesi della lista – un elenco “dinamico” che sarà soggetto a integrazioni o depennamenti nel tempo – Bruxelles si è assicurata che fossero Paesi da cui arriva “un flusso significativo di migranti irregolari“, ma ai cui cittadini contemporaneamente venissero riconosciute meno del 5 per cento delle richieste d’asilo. La Commissione ha affermato che l’elenco si basa sulle analisi dell’Agenzia Ue per l’Asilo e su rapporti dell’Unhcr, del Servizio europeo di azione esterna, di organizzazioni della società civile e di media internazionali.
Per quanto riguarda i Paesi candidati, la Commissione europea li considera tutti sicuri a patto che non vi sia una guerra sul loro territorio, che non siano state imposte sanzioni da parte dell’Ue e che il tasso di riconoscimento dell’asilo non sia superiore al 20 per cento. Se l’Ucraina non può chiaramente essere considerata un Paese d’origine sicuro, può esserlo ad esempio la Turchia, candidata all’adesione da anni ma il cui percorso è stato di fatto congelato.
Sulla convivenza tra le liste nazionali e quella europea, la Commissione sostiene che i Paesi membri potranno continuare a trattare come sicuri altri Paesi “sulla base di una valutazione in linea con le leggi europee”. Proprio quella che, secondo l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Ue, Roma non ha fornito nel decreto legge con cui ha aggiunto diversi Paesi all’elenco nazionale, e su cui il Tribunale è chiamato a esprimersi relativamente a un ricorso di due cittadini bengalesi trasferiti dalle autorità italiane in Albania e sottoposti a procedure di frontiera. “Ovviamente siamo a conoscenza del parere dell’avvocato generale. Allo stesso tempo, vorrei sottolineare che questa proposta è un’iniziativa politica già annunciata in diversi casi”, ha commentato a riguardo un alto funzionario dell’esecutivo Ue.
Se poi un Paese dovesse essere rimosso dalla lista Ue, gli Stati membri potrebbero continuare a considerarlo come tale perché la Commissione non sollevi obiezioni entro un periodo di 2 anni dalla rimozione. Ora la palla passa ai co-legislatori, Eurocamera e Consiglio dell’Ue. “Non escludo che possano essere tentati di aggiungere altri Paesi alla lista – ammette una fonte -, ma senza una valutazione della Commissione europea non sarebbe possibile“. Quel che potrebbero però fare i Paesi membri e gli eurodeputati, sarà chiedere di escluderne alcuni o di rivederne i criteri di designazione.
Secondo Cecilia Strada, eurodeputata del Pd, “la proposta di una lista di Paesi sicuri diffusa dalla Commissione sembra piuttosto un tentativo di forzare il quadro del diritto europeo per dare man forte a questo o quello Stato membro nelle sue politiche interne. O, ancora peggio, un tentativo di creare un contesto di pressione mediatica e politica sulla Corte di Giustizia dell’Ue in vista della sentenza prevista nelle prossime settimane”.
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