Protocollo Italia-Albania, ancora un flop. La Corte di Giustizia Ue rivela le criticità del decreto sui Paesi sicuri

Bruxelles – Nel designare Paesi d’origine sicuri, non basta un atto legislativo. Serve rivelare, ai fini del controllo giurisdizionale, le fonti su cui si basa la convinzione che tali Paesi lo siano davvero. È il sacrosanto principio evidenziato dall’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea, Richard de la Tour, su cui si baserà la decisione del tribunale a cui la magistratura romana, lo scorso novembre, ha chiesto chiarimenti nell’ambito dell’applicazione del controverso protocollo Italia-Albania.
Dopo un primo stop da parte del Tribunale di Roma, che in ottobre aveva sospeso il trasferimento nei centri albanesi di dodici persone migranti, Palazzo Chigi aveva rivisto, con un decreto legge emanato il 23 ottobre, la lista italiana dei Paesi d’origine considerati sicuri. Aggiungendo Paesi come Bangladesh ed Egitto, in modo da poter accelerare l’esame delle domande di protezione internazionale e condurle nei centri di frontiera albanesi. Ma ancora, l’11 novembre, i giudici italiani non hanno convalidato il trasferimento di altri sette cittadini bengalesi ed egiziani, proprio per la presunta incompatibilità della lista italiana di Paesi sicuri con la definizione data dalla giurisprudenza comunitaria.
In quell’occasione, due cittadini del Bangladesh, che in Albania si sono visti rigettare la richiesta d’asilo dalle autorità italiane proprio in virtù dell’inserimento del proprio Paese d’origine nell’elenco dei sicuri, hanno impugnato la decisione presso il Tribunale di Roma. La magistratura italiana ha chiesto chiarimenti sull’applicazione del concetto di Paese sicuro alla Corte di giustizia dell’Ue, perché hanno affermato i giudici, “a differenza del regime precedente”, il decreto legge del governo Meloni “non specifica le fonti di informazione su cui il legislatore italiano si è basato per valutare la sicurezza del paese”. Rendendo di fatto impossibile, sia ai richiedenti asilo che all’autorità giudiziaria, “contestare e verificare la legittimità di tale presunzione di sicurezza, esaminando in particolare l’origine, l’autorevolezza, l’affidabilità, la pertinenza, l’attualità e la completezza” delle fonti.
Nelle conclusioni pubblicate oggi da de la Tour, il cui compito consiste nel proporre alla Corte con sede a Lussemburgo una soluzione giuridica nella causa, la conferma della buona fede delle ‘toghe rosse’ romane: “Il giudice nazionale che esamina un ricorso contro il rigetto di una domanda di protezione internazionale deve, nell’esaminare la legittimità di tale atto, disporre delle fonti di informazione su cui si basa tale designazione”. Il “semplice fatto” che un Paese terzo sia designato come paese d’origine attraverso un atto legislativo non basta: “l’atto legislativo attua il diritto dell’Unione e deve garantire il rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali offerte ai richiedenti protezione internazionale dal diritto dell’Unione”, prosegue l’avvocato generale. La conclusione è evidente: se mancano le informazioni sul perché un Paese è stato considerato sicuro, l’autorità giudiziaria competente controllerà la legittimità di tale designazione “sulla base delle fonti di informazione che essa stessa ha raccolto tra quelle indicate nella direttiva” comunitaria.
La direttiva in questione, la 2013/32, sostiene che “un Paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Secondo de la Tour, anche il fatto di designare un Paese terzo come sicuro quando non lo è per tutti, non è privo di criticità: lo si può fare solamente se si parla di “un sistema democratico in cui la popolazione in generale gode di una protezione duratura” e se vengono “escluse espressamente” le categorie di persone a rischio “dall’applicazione del concetto di paese di origine sicuro e dalla presunzione di sicurezza ad esso associata”. Difficilmente la Corte ribalterà le conclusioni dell’avvocato generale. Ma a dare una gran mano all’Italia, alla fine, potrebbe essere la Commissione europea, che ha promesso ai governi di rivedere – o allargare – entro la fine dell’anno il concetto di Paesi terzi sicuri designati.
Il portavoce dell’esecutivo Ue responsabile per gli Affari interni e la migrazione, Markus Lammert, ha confermato oggi che è in via di definizione un primo elenco Ue di Paesi di origini sicuri, e che l’intenzione è di “presentare presto una proposta”. La Commissione si starebbe basando sui report dell’Agenzia Ue per l’Asilo (Euaa) “e su altre fonti disponibili” per valutare i Paesi, “scelti in base a criteri oggettivi quali il basso tasso di riconoscimento delle richieste d’asilo”.
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